Recensione “A Ovest di Roma”

Abitano due anime in “A Ovest di Roma”. La sconfortata ironia e lucido cinismo di chi si é arreso ai fatti della vita, sconfortato dall’incapacità di amare ma soprattutto essere amato, e che cerca una riscatto attraverso un cane trovatello, Stupido di nome di fatto. Dall’altra parte il didascalico, asettico racconto di un’infanzia dolorosa, dell’innocenza rubata e della demitizzazione della figura paterna

I due racconti lunghi di A Ovest di Roma, ” Il mio cane Stupido” e “L’orgia”, sono sono stilisticamente e tematicamente apparentemente distanti, ma perfettamente complementari. L’infanzia é dipinta a con colori cupi e desaturati, con freddezza e distacco per raccontare il dolore che si prova quando il colosso della figura paterna si crepa, fino alla disgregazione.
Nel racconto dell’età adulta la tavolozza del racconto si fa vivida e brillante, come la scrittura di Fante. Il suo alter ego é uno scrittore cinquantenne, incapace di essere un buon padre esattamente come suo padre prima di lui, disprezzato dai figli che sembrano parlare una lingua diversa dalla sua e innamorato dell’idea di sostituire un’immaginaria brunetta italiana al posto dell’arianissima moglie. Su carta una tragedia che si trasforma in una commedia grazie alla penna di Jhon Fante e all’arrivo di un gigantesco cane akita che stravolge l’esistenza del protagonista.
Come se Fante volesse dirci che forse arrivati verso la fine del percorso, malgrado tutto, riusciremo a guardare indietro e a sorridere ( forse ridere) di quello che abbiamo vissuto.