“Il cane di Terracotta” di Andrea Camilleri

Recensione di Guglielmo Iurini

La prima lettura seria non si scorda mai.

Vigata è una piccola Patria ancestrale e i suoi personaggi, serviti in salsa ironica siciliana, agiscono e confabulano con dialoghi improvvisi, ficcanti, trascinanti e tendenti più che occasionalmente all’assurdo, tutti in cerca di un commissario.

Montalbano è il capo ideale di un commissariato di polizia ideale popolato da più maschere: il Razionale Fido, l’Inaffidabile Vice-Casanova e il Centralinista Inetto – a vivere e, soprattutto, a rispondere alla cornetta.

Si parte con una irruzione-lampo ai confini del tragicomico per poi finire in una grotta a prendere parte ad un rituale mediterraneo antico di millenni con i suoi silenzi. Dalla cronaca alla storia e poi dritti fino alla favola tragica di due amanti, prima giovane carne fresca, ora incartapecorita.

Un unico filo che forse unisce: non si risponde solo alla legge dell’uomo ma anche a quella dell’umanità, quella che non nega a un commissario di brindare alla salute di un boss pentito alzando il calice del vino o di posargli la mano sulla fronte nell’ultimo frangente dandogli del tu (“Mi scanto” […] “Non t’affruntari, non ti vergognare a dirlo. Magari per questo tu sei un omo. Tutti ci scanteremo a questo passo. Addio, Tano”). Né di concedere la propria stanza al riposo di un vecchio assassino.

A Vigata, terra di mare, colui che dispensa un briciolo di conforto e accoglie confessioni non poteva che essere un Pescatore. E invece no, è un Commissario.

Venia per gli spoiler

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